lunedì 30 novembre 2015

L'inabissamento della "Benedetto Brin" colpisce Vercelli e due suoi cittadini

Una foto della corazzata Benedetto Brin
A fine settembre del 1915 l’Italia venne sconvolta dalla notizia della perdita della corazzata Benedetto Brin, nave da guerra che aveva partecipato allo sbarco a Tripoli nella guerra di Libia e che si trovava alla fonda nel porto di Brindisi. Causa dell’affondamento è l’esplosione proveniente dalla santabarbara della nave, anche se ancora oggi non sono del tutte chiare le ragioni (c’è chi parla di un agente austriaco o di un marinaio traditore, o semplicemente di un incidente casuale). Quel che è certo è che su 943 uomini presenti a bordo persero la vita 456 tra cui il comandante Giro Fara Forni e il Contrammiraglio Ernesto Rubin De Cervin. Tra i membri dell’equipaggio, due marinai erano provenienti da Vercelli: il cannoniere scelto Desiderio Trinchero e il torpediniere silurista Francesco Calvo. Le famiglie dei due ragazzi fanno telegrafare il sindaco al Ministero della Marina per chiedere delle informazioni sullo stato dei due giovani e «il contrammiraglio Nicastro rispose, che il Trinchero è salvo, benché ferito, e che il Calvo è affatto incolume» (La Sesia, 1 ottobre ’15). 

In realtà, le prime buone notizie vengono smentite nel giro di pochi giorni. Il cinque di ottobre, attraverso un telegramma inviato dal Ministero della Marina, arriva al sindaco Piero Lucca la notizia della morte del cannoniere scelto Desiderio Trinchero in seguito alle ferite riportate durante l’incidente. Il sindaco però non fa in tempo a comunicare la morte alla madre del cannoniere, poiché la donna è già partita per Brindisi per prestare soccorso al figlio ferito; la donna giunge a destinazione quando il figlio è ormai già sepolto, con grande strazio per la madre appena giunta a destinazione. La notizia, insieme alla foto del giovane caduto, viene riportata dalla Sesia l’8 ottobre.

La fine della Benedetto Brin (fonte www.brindisiweb)
Una sorte più favorevole è invece riservata all'altro vercellese presente sulla Benedetto Brin al momento dell’esplosione. Il giovane marinaio silurista Francesco Calvo, infatti, sopravvissuto all'esplosione torna a Vercelli, in licenza provvisoria mentre attende di essere ricollocato su una nuova nave. La Sesia riporta sul giornale il racconto dell’avvenimento fatto dal ragazzo. «Il Calvo – si legge sul giornale - era a bordo della sua nave quando avvenne lo scoppio, e si trovava, con altri quattro compagni, nella camera di lancio dei siluri, che si trova a due metri e mezzo sotto il livello dell’acqua a prua, mentre lo scoppio era avvenuto a poppa. Al primo momento pensò che la nave fosse stata silurata da qualche sommergibile nemico nascosto nel porto; ma il rombo dell’esplosione era troppo formidabile perché si trattasse di un solo siluro (…) I cinque giovani si trovarono improvvisamente all'oscuro, essendosi spenta la luce elettrica; il Calvo salì per la scaletta interna, alla sala soprastante delle dinamo, dove sentì ben presto, l’acqua sotto i piedi; passò allora nei locali dell’officina e vi trovò aperta nel soffitto una botola, la chiusura della quale era stata divelta dalla violenza dell’esplosione. Salito sopra un torno, vi si arrampicò ed uscì all'aperto. L’acqua rasentava ormai il bordo della nave: il Calvo si gettò in mare» (La Sesia, 17 ottobre ’15). Un ultimo ricordo va anche alla vittima vercellese Desiderio Trinchero, di cui Francesco Calvo era amico e col quale era sulla Brin già da nove mesi. «La sera prima del disastro – racconta il giornale – erano stati insieme. È ancora addolorato della misera fine dell’amico» 

giovedì 26 novembre 2015

Una lettera dal fronte


Antonio Rivardo, classe 1893, del 33° fanteria, morì di tifo. Pochi giorni prima aveva scritto una lettera alla moglie che riportiamo. “Dopo un mio lungo silenzio vengo a farti sapere mie notizie. È già 8 giorni che mi sento un po’ ammalato, ho la febbre, ma adesso mi sento un po’ meglio, però sopra di questo non pensare male, io ho ritardato a scrivere perché mi mancava la carta. Quindi mandami buste e carta, e fammi sapere sovente tue notizie, e quando mi scrivi mandami anche la fotografia di Ermes [il figlio, nda]. Se io non posso scrivere, scrivimi tu sempre e raccontami tante cose. Noialtri qui siamo in mezzo a delle montagne che si sta molto bene. Ti mando mille baci a te, alla mamma e a tutti di casa, e pregate per me ch’io possa venir a casa presto e glorioso.”

Da il Biellese del 1 settembre 2015

lunedì 23 novembre 2015

Il Comune di Asigliano e il Comitato Femminile

Agli inizi di ottobre si apre una lunga polemica nel comune di Asigliano, causate da una disputa tra l’amministrazione comunale socialista, retta dal sindaco Ferraris, e uno dei nuovi comitati di assistenza ai soldati che vengono fondati nei paesi italiani. Cosa accade?

A settembre, nel comune vercellese, viene costituito un nuovo comitato con lo scopo di raccogliere della lana per confezionare indumenti invernali da inviare ai soldati al fronte in vista dell’inverno e per rispondere agli appelli provenienti dai giornali fin da fine agosto per fornire ai soldati aiuti per l’inverno in arrivo. Il comitato viene formato da una cinquantina di donne del paese che «si fecero premura di dare il loro nome e col nome il loro obolo generoso, non solo, ma si divisero il paese in varie sezioni, recandosi volenterose in gruppi ad ogni casa a chiedere il concorso pecuniario della popolazione tutta» (La Sesia, 24 settembre ’15). Il comitato in poco tempo raccoglie più di mille lire con l’intenzione di acquistare lana per farci delle calze, passamontagna, sciarpe e guanti. I problemi nascono quando il sindaco di Asigliano rifiuta di concedere al Comitato contributi comunali e l’uso di una sala nel Palazzo comunale per una riunione, costringendo il Comitato a spostarsi presso la Parrocchia. La decisione viene criticata duramente sempre sul giornale La Sesia qualche giorno dopo da un soldato asiglianese al fronte. «Io, come asiglianese, che mi trovo al fronte, protesto altamente contro l’atto, oltreché antipatriottico, anche in umanitario, compiuto dal signor sindaco (…) È veramente deplorevole, che in un’opera benefica e santa, incoraggiata dall’on. Presidente del Consiglio, un pubblico funzionario, anziché dare il buon esempio, opponga delle ripulse che muovono a sdegno» (La Sesia, 3 ottobre ’15).

La difesa viene affidata a una lettera che il sindaco di Asigliano manda al giornale La Risaia e che il quotidiano socialista pubblica a inizio di ottobre. Il sindaco afferma di voler rispondere perché gli articoli e le lettere (soprattutto quello del soldato che velatamente accusa di essere falsa) insinuano «il dubbio che si facciano delle animosità di partito piuttosto che compiere opere buone» (La Risaia, 9 ottobre ’15). Qual è la versione del sindaco? «Dopo che tre mesi che si era qui in Asigliano costituito un Comitato Civile, sorge nell'idea di certe signore di formare un Comitato femminile per la confezione di indumenti di lana; anzi sembrava a tutta prima che questo Comitato avrebbe collaborato volentieri col Comitato Civile». Ma questa speranza, secondo il sindaco, sarebbe stata vanificata otto giorni dopo quando i due comitati si riuniscono assieme e il Comitato femminile si rifiuta di accettare gli aiuti provenienti dal Comitato civile «dichiarando di non voler uomini immischiati nella loro opera, dicendo di voler fare da sole. Dopo aver rinunciato a tutte le offerte, rivolgono al Comune la domanda di sussidio; una vera assurdità perché il comune aveva già un altro Comitato legalmente e civilmente costituito ed al quale  bisogna pensare di fornire i fondi per far fronte alla grande miseria che non mancherà nel prossimo inverno». L’accusa del sindaco diventa poi più precisa; Ferraris afferma che le signore si erano sentite patriottiche solamente dopo l’appello del parroco, e non nei quattro mesi in cui il Comitato civile era stato attivo.


La polemica si conclude poi sulla Sesia, con il giornale che da spazio a una replica della anonima buontempona che il sindaco aveva criticato sulla Risaia. La donna racconta come ha rifiutato perché «mentre promettevano una anticipazione di forse 400 lire per la lana, imponevano d’altra parte condizioni tali, a cui le signore non cedettero di aderire (…) ad onor del vero che, nessun ostacolo venne da questo frapposto, ed i due Comitati, pur separando nettamente le proprie mansioni ebbero sempre la reciproca stima, tant'è che parecchie delle signore del Comitato femminile sono mogli o parenti dei signori del Comitato maschile» (La Sesia, 12 ottobre ’15). La Sesia poi chiude il giro, invitando il sindaco in redazione a controllare la cartolina militare inviata dal soldato, che il geometra Ferraris considerava falso. 

martedì 17 novembre 2015

I primi profughi dall'Austria e dal Friuli



L’arrivo dei primi profughi a Biella
Pochi giorni dopo i primi feriti e ammalati, ricoverati in seminario, giunsero a Biella un centinaio di profughi “dalle terre irredente”. Giunsero alla stazione ferroviaria, furono registrati, e fu offerto loro il pranzo al Caffè della Stazione. Subito dopo furono trasferiti al Santuario di Oropa, che nei suoi ampi spazi era da tempo pronto ad accogliere i profughi ed i rifugiati. Tra di essi si contavano una ventina di bambini e circa trenta donne, quasi tutti triestini e goriziani, ma anche alcuni austriaci e una signora germanica con tre figli, che aveva il marito nell’esercito tedesco.
Qualcuno dichiarava subito, con cadenza veneta: “Desideriamo trovare una occupazione per essere sicuri de magnar tuti i dì.” Data questa ferma volontà di continuare ad esercitare il proprio mestiere, essi sarebbero stati presto impiegati nelle manifatture biellesi per andare a colmare i vuoti lasciati dai richiamati. La distribuzione dei profughi nelle aziende si auspicava fosse affidata al Comitato circondariale, che non si sarebbe dovuto occupare solo degli aiuti ai richiamati, ma fare “opera di buon patriottismo”, dimostrando agli irredenti che “l’Italia li sa e li vuole tutelare”.
La vita nelle terre irredente
Riportiamo una breve intervista ad uno dei profughi:
« -   Ero a Trieste dal 1892 ed ero diventato un triestino anch’io; visto che le cose si facevano brutte, ho passato, con la dichiarazione di guerra, la frontiera e mi sono costituito alle autorità italiane.
-          Ed ora?
-          Ora ho una figlia in Austria. Ha sposato un austriaco e da otto mesi è in Galizia. Per fortuna non hanno figli. Brutti momenti, figliolo mio benedetto, brutti momenti! E speriamo che la guerra termini presto. Se no, son guai.»
Il clero nelle terre irredente
Tra i profughi vi erano anche due sacerdoti della Valsugana. Uno di essi, intervistato, racconta come fosse difficile per il clero esercitare il proprio ministero per evitare ripercussioni su se stessi e sui propri cari in caso di aperta propaganda antiaustriaca o anti-italiana. Dai vertici della Chiesa, infatti, erano arrivate indicazioni di non fare politica, distinguendo tra i sentimenti personali (pare in gran parte per l’italianità) e la professione di tali sentimenti.
Il popolo, inoltre, “non vive di idealità politiche, vive di pane e si accontenta del pane” e quindi, nonostante le simpatie per l’Italia non sentiva il bisogno di sollevarsi in aperte rivolte.  L’intervistato ricorda come abbia predicato una sola volta, invitando a non odiare né gli austriaci, né gli italiani. Queste parole miti non devono, però, dare adito alle accuse che spesso si sentivano verso i cattolici e il clero per non aver organizzato sollevazioni o rivolte.
Propaganda e informazione
Oltre ad informare sulle condizioni dei rifugiati questi articoli servono a rinforzare la convinzione italiana della bontà della guerra, dato l’alto numero di italiani irrendenti e vogliosi di far parte del Regno savoiardo che viveva oltre confine.

Accuse ai cattolici

Insieme alle molte testimonianze di solidarietà, si diffusero, fin dai primi giorni di combattimenti, le accuse tra le varie forze politiche riguardo la responsabilità dell’ingresso in guerra; naturalmente lo scontro più acceso fu quello tra socialisti e cattolici.
Sulle pagine de Il Biellese troviamo risposte alle numerose accuse che “socialisti e massoni” rivolgevano dai propri organi di stampa ai cattolici “austriacanti”, e ai papi Pio X e Benedetto XV in particolare.
Taluni sostenevano che Papa Pio X avesse dato al Kaiser Guglielmo II 6 miliardi di lire perché egli iniziasse la guerra e che gli atteggiamenti  pacifisti del pontefice fossero farse volte a nascondere l’intima soddisfazione per un conflitto che doveva, secondo tale visione, eradicare il socialismo dall’Europa e dall’Italia in particolare.
Senza dilungarci su dove il Papa potesse aver preso tale somma di denaro e sul perché volesse a tutti costi la guerra possiamo notare come non ci fosse quartiere nella lotta ideologica e politica dell’epoca. Quasi ogni numero, infatti, riportava smentite alle varie accuse: le più eclatanti riguardavano il clero delle zone di confine, spesso accusato di non fare nulla per la causa italiana o di appoggiare apertamente gli austriaci. Riportiamo nell’immagine un piccolo e gustoso esempio della polemica politica e ideologica di quel periodo.

Da il Biellese del 1 e del 15 settembre 2015


martedì 10 novembre 2015

La città di Vercelli si mobilita per il soldato Zampini

Con l'arrivo nella città di Vercelli dell’ospedale militare, giungono in città i primi colpiti dalla guerra, soldati feriti e mutilati mandati via dal fronte e portati nelle retrovie a curarsi. Molti di questi soldati versano in condizioni critiche  o con mutilazioni gravi, tra questi a raccogliere la simpatia di gran parte dei cittadini vercellesi è il soldato Felice Zampini.
Una foto di Felice Zampini e del padre tratto dalla Sesia

Felice Zampini è un soldato romano, originario di Gallese in provincia di Roma e giunto a Vercelli agli inizi di settembre, e ricoverato all'ospedale militare poiché in combattimento ha perso entrambe le mani ed è quindi «in attesa dell’applicazione delle mani artificiali»(La Sesia, 25 settembre ’15) . Egli è un soldato «doppiamente valoroso, per il coraggio spiegato nella guerra di Libia ed in quella attuale di redenzione delle terre nostre soggette all’Austria, e per l’eroica rassegnazione con cui ha sopportato l’amputazione di entrambe le mani». La sua condizione di grave mutilazione attira le simpatie di tutta la città e del giornale La Sesia, che decide di aprire una sottoscrizione pubblica a suo favore per aiutare lui e la sua famiglia in vista anche dei tempi difficili che li attendono. Iniziano quindi a giungere alla redazione del giornale La Sesia i primi soldi provenienti dalle donazioni dei cittadini vercellesi. Il gesto commuove molto la famiglia del soldato romano tanto che la moglie, Sestilia Zampini, scrive al giornale per ringraziare tutti della generosità. La lettera, datata 11 settembre 1915, viene pubblicata il 14 settembre sulla prima pagina della Sesia. «Non ho parole sufficienti – scrive la donna- a ringraziare la S.V. quanto merita per quel che ha fatto a pro’ di mio marito (…). Immane è stata la sventura, giacché vedere un giovane di 25 anni privo di ambo le mani quando arride la primavera della vita, è la cosa più orrenda e dolorosa che mente umana possa concepire (…) conforto è per me il pensare, che questo sacrifizio è dovuto alla gran Madre, la nostra patria Italia, per la quale è sommo decoro ai suoi figli valorosi versare tutto il loro sangue» (La Sesia, 14 settembre ’15).



Soldati ferita in attesa di aiuti (fonte www.14-18.it)
La sottoscrizione a favore del soldato Zampini registra uno straordinario successo, tanto che già il venerdì successivo il giornale può annunciare di essere prossimo alle 1.500 lire raccolte. «Nessuno può certamente, non che rammaricare il fatto, meravigliarsi di questo slancio di pietà per un caso raccapricciante, che resterà forse unico nella storia di questa guerra e di simpatia per  una semplice e buona donna del popolo» (La Sesia, 17 settembre ’15). Il successo dell’appello porta il giornale a pensare che «si potrebbe adeguatamente soccorrere anche gli altri mutilati che si trovano nel nostro Ospedale militare pure riservando allo Zampini il grosso del capitale raccolto per lui e nel suo nome».  Dopo aver parlato della possibilità sia con il direttore tecnico dell’ospedale militare, il professor Isnardi, e con il soldato Zampini stesso, il giornale decide di dare seguito alla sua idea, in modo che «nessuna nube, sia pur lieve, di gelosia, offuscherà la bellezza confortante di un gentile atto di generosità della Cittadinanza vercellese».

giovedì 5 novembre 2015

Pochi uomini e poche risorse per la mietitura



La grave questione della mietitura
Con l’avvicinarsi della stagione dei raccolti si pose in tutta la nazione un problema di grande rilevanza: la mancanza di uomini per la mietitura. Il richiamo alle armi aveva, nel Biellese, reclutato il 12% della popolazione nelle zone agricole, meno della metà in quelle industriali e ancor meno in città.
L’alta percentuale di uomini sotto le armi mise in pericolo la mietitura del grano, necessario alla sussistenza della popolazione tutta, nonché al sostentamento delle truppe; senza pane non può esserci guerra.
Sulle pagine del Biellese dell’11 giugno si richiedeva di applicare al settore agricolo la stessa dispensa che era stata data agli operai che erano necessari ai comparti bellici della produzione industriale, facendo notare come il pane fosse più necessario ancora di fucili e munizioni per poter condurre la guerra.
Già da qualche tempo era salito all’onore della cronaca il problema della mietitura, dapprima legato solamente alla scarsa disponibilità di macchinari e bestiame per i lavori agricoli, tanto che si dovette procedere all’emanazione di un decreto che obbligava i proprietari di macchine e bestiame a metterli a disposizione, congiuntamente al personale, per procedere al “regolare e tempestivo raccolto dei cereali nell’anno in corso”. Coloro che si rifiutavano di obbedire all’ordinanza potevano incorrere nel sequestro dei mezzi produttivi e al pagamento di un’ammenda.  Per ovviare al problema di scarsità di manodopera lo stesso decreto promuoveva “l’emigrazione temporanea  dei lavoratori nei comuni ove sia accertata l’insufficienza della mano d’opera locale”.
Il congedo  per la mietitura sarebbe dovuto durare solamente due settimane, ma secondo il ministero della guerra queste richieste, di cui capiva l’urgenza e la necessità, erano di difficile realizzazione.
In provincia di Novara, di cui Biella faceva parte, si procedette all’abilitazione a determinati lavori agricoli, specialmente la trebbiatura, gli allievi di alcune scuole industriali che avessero completato il terzo anno di studi.

Il prezzo del pane
Negli stessi giorni in cui si ipotizzava un ritorno dei soldati per la mietitura si accendeva la discussione sul prezzo del pane.
La causa di questa accesa polemica derivava dal fatto che nonostante il prezzo del grano fosse costantemente sceso da metà maggio a metà giugno non ci fu segno di flessione alcuna nel prezzo del pane. Questo perché in previsione dell’inizio delle ostilità molti fornai avevano provveduto ad accumulare grandi quantità di farina e quindi non intendevano vendere il pane sottoprezzo.
Questa situazione portò pochi giorni dopo all’emanazione di un nuovo calmiere sui prezzi che riguardava anche e soprattutto il pane. Il prezzo fu calmierato a 52 lire, anche se questa soluzione non accontentò le richieste dei cittadini che si aspettavano un più forte ribasso.

da il Biellese del 18 agosto 2015